MASSIMO CAMISASCA

L'ESPRESSIONE DI UN POPOLO

 

Da M. Camisasca, Terra e cielo. Un itinerario di vita cristiana

 

 

 

 

 

 

 

Canto e tradizione

 

Si può dire, in un certo senso, che la liturgia è il mondo come Dio l’ha pensato, il mondo salvato. Dobbiamo essere educati a questa dimensione. Il rischio è quello di vivere la liturgia come un momento separato dal resto dell’esistenza, mentre essa è il momento in cui l’esistenza è totalmente vera. Concretamente le strade per favorire in noi e negli altri un giusto atteggiamento sono tantissime. Una di esse è costituita dai canti, che vanno scelti con molta attenzione, attingendo dall’immenso tesoro della tradizione della Chiesa. Il canto deve riferirsi ai fatti della storia della salvezza, privilegiando le parole della Scrittura o i testi liturgici. Se si vogliono introdurre canti nuovi, ciò non deve avvenire a discapito della tradizione, altrimenti sarebbe come la fioritura di un ramo senza albero: occorre la solidità dell’albero perché sboccino i fiori sul ramo. Questo è il motivo che mi fa insistere perché nell’educazione dei futuri sacerdoti, in seminario, abbia un peso rilevante il canto gregoriano. Quando è concepito come dialogo con ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, il canto diventa strumento prezioso per introdurci alla globalità del cristianesimo.

 

Il canto nasce dall’appartenenza

 

Il canto è una delle modalità più semplici e profonde con cui ci è dato di entrare nella sensibilità della Chiesa. Don Giussani ha sempre descritto il canto come l’espressione naturale di chi si scopre amato: “Siete mai entrati in una casa dove c’è una giovane madre affettuosa? E’ impossibile che il suo bambino piccolo non canticchi. Canta, canticchia tira fuori chissà da dove delle armonie: e ha quattro anni! Esprime la letizia e la tranquillità che vengono dall’essere amati” (L.Giussani, “La massima espressione”, in Un caffè in compagnia, conversazioni sul presente e sul futuro con R. Farina). Il canto è dunque, nella sua semplicità, la somma espressione dell’uomo che si riconosce voluto, abbracciato, amato; è l’espressione dell’appartenenza. Per questo ovunque c’è un’esperienza cristiana c’è anche chi canta, chi insegna canzoni imparate altrove, che ne riscopre di antiche, chi prova a comporne di nuove. Nel canto prende voce il bene di cui ci sentiamo oggetti, diventando così più chiaramente presente ai nostri stessi occhi. Allo stesso modo non c’è possibilità migliore del canto per esprimere le proprie domande. Per questo, dice ancora Giussani: “La carità più grande di tutte è quella del canto, perché il canto rende visibile e vicino il mistero”.

 

Il canto è parte del sacramento

 

Mi sembra purtroppo evidente che nell’epoca moderna si sta consumando un impoverimento del canto nella liturgia. Forse esso è cominciato molto tempo fa, quando si è iniziato a isolare il canto dalla liturgia, anche quando si trattava di canto sacro. Penso ad esempio alle grandi messe di Mozart, che certamente non erano più un fatto liturgico, ma erano pensate per l’esecuzione da camera. Questa divisione si è accentuata nel corso degli anni, finché siamo giunti alla situazione attuale, in cui il canto non è più avvertito come parte del sacramento. Mi pare che alcune derive cui possiamo assistere in diverse chiese, forse in Italia ancora meno che altrove, siano l’estrema conseguenza di questo distacco. Allora è necessario tornare a considerare il canto come le icone, riscoprirlo modalità del nostro rapporto vivente con la persona di Cristo. Esso è parte del sacramento alla stregua delle parole e dei silenzi, delle luci e dei colori, dei gesti e dei movimenti.

 

L’importanza delle parole

 

Occorre stare attenti a due possibili rischi, che sono quello di non cantare mai e quello di cantare per abitudine. Tali rischi sono evitati soltanto se si riconosce la novità che il canto sempre porta con sé, se si è disposti ad accoglierlo, se lo si vive come un avvenimento. Per questo occorre sempre un’attenzione, una tensione, perfino una certa posizione del corpo. Quando il canto è rispettato nella sua dimensione di avvenimento, esso introduce nella nostra vita una nota di festosità, di luce, di calore. Perché un canto sia fattore di novità, non è necessario si tratti di un canto nuovo. Ci sono canti talmente belli che non ci si stancherebbe anche a cantarli tutti i giorni. La questione fondamentale è la verità della domanda, l’apertura del cuore. Per questo è importante prestare attenzione alle parole e non soltanto alla melodia, perché se si cura soltanto l’intonazione, l’approccio al canto diventa sentimentale e non esprime la ragione per cui esso è stato voluto. Invece il canto è una melodia che sostiene una parola, è un affetto che sostiene la ragione. Sant’Agostino, ad esempio, raccomandava che i salmi fossero cantati, non per cancellarne il contenuto, bensì, al contrario, perché il loro significato fosse evidenziato e perché fosse più semplice aderirvi. Cantiamo per aderire meglio ad un Verbum, per comprendere più a fondo una verità, per farla più nostra di quanto potremmo usando solo il ragionamento. Un’ultima parola. Ai miei missionari dico: “Accostatevi anche ai canti della tradizione del Paese in cui siete mandati a vivere, accettando la fatica di ascoltare, di ricercare, di valorizzare il positivo senza lasciarvi bloccare da ciò che vi appare distante dalla vostra esperienza”. E’ un lavoro che non si può rifiutare, se si vuole evitare il rischio di seppellire grandi tesori. Ci sono tanti canti locali che meritano di entrare a far parte della tradizione di tutti. La tradizione è una cosa viva, è come un tronco su cui si innestano sempre nuove fioriture: se manca questo tronco non ci possono essere nemmeno nuovo fioriture, ma se c’è un tronco vivo le fioriture si impongono.

 

Cantare davanti a qualcuno

 

Non si può cantare veramente se non avendo davanti Colui per il quale si canta, perché il canto, nella sua stessa natura, è un’espressione dialogica, implica un “io” e un “tu”. Quando a messa domina la distrazione, quando non si va insieme perché non si segue il gesto di chi dirige, ciò non avviene tanto per incapacità tecnica, quanto perché si dimentica Colui per cui si canta. La tecnica è secondaria, non è necessario essere intonatissimi o aver studiato musica. Ciò che conta è la coscienza di essere di fronte a Dio. Solo così il canto diventa una preziosa scuola in cui si impara l’unità coi fratelli cristiani e diventa, allo stesso tempo, l’espressione potente di tale unità. Se manca la percezione del Padre “il canto, invece di essere espressione di un popolo, diventa la ripetizione ossessiva delle ombrosità e delle fisime dei singoli. Si è magari in tanti ad ascoltare e a riconoscersi in quelle note e in quelle frasette. Ma si resta in frantumi. Collettivamente soli” (L. Giussani, “La massima espressione”, in Un caffè in compagnia…, op. cit., p.136). Il modo più semplice per imparare a cantare davanti a Dio, insieme all’attenzione alle parole, è seguire chi dirige. Il direttore è il segno tangibile e oggettivo dell’unità. Solo obbedendo al suo gesto e alle sue indicazioni si può scoprire l’imparagonabile capacità del canto di essere la voce della nostra persona, non in quanto punto solitario, ma in quanto segnato da un’appartenenza, parte di un popolo.