da Tracce, n. 4/1994
«Nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica. Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte? Sembra il massimo. Eppure, quando sento la voce umana... Non so se capita anche a voi: ma è ancora di più, e di più non si può. Davvero, non esiste un servizio alla comunità paragonabile al canto». Don Luigi Giussani accoglie con queste parole un bel gruppo di gente per cui la musica è tanta parte della vita. Ci sono professori di Conservatorio e semplici cantori dilettanti, tutti però prestano fiato, voce e passione ai cori di Comunione e Liberazione. L’occasione è conviviale.
Qui mettiamo in fila, ricavate da appunti estemporanei, le domande che venivano su da un punto all’altro della grande tavola (si sarà stati in una trentina di persone) e le risposte e le contro-domande di don Giussani. Il filo del discorrere? La musica, naturalmente, anzi, il canto. Il fatto poi che la conversazione sembri saltare, a leggerne la trascrizione, un po’ qui un po’ là, si spera induca più a farla catalogare tra le rapsodie, che a darne rimprovero all’estensore. Don Giussani ripete e si schermisce: «Sì, il canto è l’espressione più alta del cuore dell’uomo. Non lo dico perché ho davanti voi, che cantate. Quel che dico qui, lo dico sempre». Un’osservazione: pochi in giro cantano, ma c’è sempre un ronzio di canzoni che sfuggono a cuffie e saltano fuori da tutte le parti. C’è una colonna sonora che ci insegue ovunque e che noi non scegliamo. Di gran moda sono le folle radunate dal karaoke o da un cantautore. «Eppure», interrompe Giussani, «queste canzoni e le esibizioni di questi fenomeni possono essere il segno della corruzione indicibile di un’epoca. Il canto, invece di essere espressione di un popolo, diventa la ripetizione ossessiva, sentimentaloide, delle ombrosità e delle fisime dei singoli. Si è magari in tanti ad ascoltare e a riconoscersi in quelle note e in quelle frasette. Ma si resta in frantumi. Collettivamente soli». Un po’ di spavento si sparge come sale sulla tavola. Davvero è impossibile un canto di popolo oggi? Uno che è professionista della musica pone la domanda così: come crescere, come essere missionari nella musica? «Quello che aiuta maggiormente dal punto di vista espressivo, quel che proprio fa crescere, è cantare per la comunità. E sottolineo la parola per. Agli Esercizi della Fraternità fare un assolo non di fronte, ma per sedicimila persone!
Questa è la differenza tra Vasco Rossi, che sarà senz’altro bravissimo, e voi che siete il coro di questi sedicimila. Voi esprimete questi sedicimila, la loro coscienza, siete la voce di un corpo, di un popolo, di un destino. Vasco Rossi, anche dinanzi a centomila, esprime se stesso e conferma nella solitudine e nel vuoto chi pure lo adora. Invece quando a Rimini, agli Esercizi, voi cantate, ci esprimete, siete noi, e la vostra voce si alza e ci tocca come puro dono. Per questo il canto è gratuito, il canto è carità. È carità pura il canto. Se vi posso dare un consiglio: non siate troppo preoccupati di voi stessi, della vostra capacità di esprimervi. Il contenuto della preoccupazione non può essere l’espressione di sé, ma l’esprimere la coscienza di questo popolo. Per questo, il coro, il canto, è il servizio più utile e gratuito per la comunità. Se una comunità non ha coro, vuoi dire che non ha passione, qualcosa si è già disfatto».
Domanda: e come si può essere sicuri che non si sta inseguendo la propria personale fisima espressiva? (Intanto conviene notare che il tutto accade tra impilarsi di piatti e affondi di forchetta: nessuna solennità, molto appetito). Risposta: «La sicurezza viene dall’appartenenza. È una cosa tanto naturale questa. Tant’è vero che un bambino che non ha vissuto l’esperienza di questo appartenere alla madre e al padre, cresce psicopatico. Si canta, e il canto esce dal petto e dalla gola dicendo una coscienza, se si appartiene. Siete mai entrati in una casa dove c’è una giovane madre affettuosa? È impossibile che il suo bambino non canticchi. Canta, canticchia, tira fuori chissà da dove delle armonie: e ha quattro anni! È espressione della letizia e della tranquillità che viene dall’essere amati. Che viene dall’appartenenza». Qualcuno butta il sasso: don Giussani, è per questo che da tante parti, nel movimento, si canta male? «È sintomo del disfacimento della comunità», dice calmo don Giussani. E si spiega: «Quanto più ci si riempie la bocca della parola compagnia, tanto più la comunione si è dissolta. L’appartenenza alla compagnia, la comunione, è sostituita da un legame affettivo intorno a una personalità magari affascinante. Ma si finisce per essere costituiti da un legame psicologico. Invece la comunità nasce dalla partecipazione nell’Essere, da un’ontologia. Se non discende dal Mistero, non è comunità. E bisogna che ci sia la coscienza dell’avvenimento, che accade qui ed ora. Quanto poi al canto...». Si fa un attimo di silenzio, si smette di tuffare il cucchiaio nella créme caramel. «...Quanto al canto: è una carenza generale nel movimento. Dovuta al fatto che i capi sentono poco che cos'è l’uomo, che cosa è il cristianesimo? Questa “trascurataggine”, questo disamore al canto e alla musica è sintomo di una grave decadenza». Ride e scherza ma non troppo: «Io siccome so che cosa è l’uomo, esigo il canto». È una passione antica quella di don Giussani. Racconta che nel 1932-33, ed aveva 9 o 10 anni, suo padre sceglieva dal giornale a quale liturgia festiva farsi accompagnare dal figlio, in giro per tutta la Lombardia a cercare una messa polifonica. C’era crisi eppure più del pane era importante la musica. E nella casa dei Giussani a desio, dove non c’era da scialare, si faceva venire la domenica sera in trio o un quartetto a suonare Schubert. Qualcuno commenta: questo essere impastati di musica, o c’è o non c’è, allora. Dunque parte l’ordine: «Dovete fare i cori, cantare»? Don Giussani: «Non si smuove nessuno con le parole. Chi appartiene sta ad imparare». A questo punto torna fuori la storia del canto nel movimento. Non è nato qualche anno dopo, con Adriana o altri. Non è nato neppure un minuto dopo il movimento. È la stessa cosa del movimento, è - si può dire - il suo carisma? Racconta Giussani: «Alla prima messa di Gs, la prima in assoluto: lì è nato il canto del movimento. Eravamo radunati nella chiesa milanese di san Gottardo al Palazzo. E dieci minuti prima della messa mi sono messo a insegnare Vero amore è Gesù e O côr soave. Ho mosso le mani come faceva il mio maestro in seminario (rifà il gesto), ho cantato e mi hanno seguito. Cinque minuti prima della prima messa del movimento è nato il canto del movimento. L’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza. Nasce il movimento e si canta. Come un bambino con la madre. Si appartiene e sorge il canto. Senza appartenenza non ci può essere un coro. Non si impongono i cori per decreto, nascono quando nasce il movimento: anche oggi». E le canzoni nate da Gs? «Ce ne erano di bellissime, sin dagli inizi. E tutti le cantavano. Poi, per anni e anni, questi canti non sono stati più cantati. Le canzoni di Adriana Mascagni - bellissime - sono cadute nell’oblio. Anche i più bei canti di Claudio Chieffo (La guerra, La ballata dell’uomo vecchio, La nuova Auschwitz) erano caduti in disuso. Ma ho lottato. Se una cosa è autentica devi farla passare. E quei canti sono tornati». Qualcuno rimette il dito nella piaga, e dice: eppure - e siamo allo spumante finale, uno splendido rosé - c’è quasi una sordità nel movimento... Don Giussani commenta: «È diffusa una pigrizia, una inerzia... ma è soprattutto aridità. Essa domina la società di oggi. Ma è precisamente con il canto che si vanga in questo terreno secco!
Noi ci lamentiamo e ci battiamo il petto per tutte le volte che aridità alberga in noi, ed è giusto. Ma pensate che nove su dieci che ci incontrano e vengono ai nostri raduni se ne vanno via dicendo: “Come si canta bene da voi!”. Tutti i sentimenti umani più forti, il senso del peccato, la paura, la misericordia, la nostra gente li ha imparati assai più attraverso il canto che non con le letture. Io li ho imparati da piccolo non innanzitutto dalle prediche, ma dai canti. Così la riforma della Chiesa ha avuto bisogno e si è espressa attraverso i canti di san Filippo Neri. I più belli li cantate anche voi». La discussione scivola su chi può dirsi davvero musicista. Sulla musica tedesca (qualcuno azzarda: «Non sopporto tra i tedeschi la presunzione di Wagner». Strawinski ebbe a scrivere che La donna è mobile di Verdi da sola vale più di tutto Wagner»), su quella italiana. Conclude Giussani: «Il canto è l’espressione più autentica dell’uomo, se l’uomo è uomo, ed è tale se appartiene. Il figlio, se la madre è nei pressi, canticchia. Così appena c’è il movimento, anche piccolo, anche un frammento, canta».